di Francesca Minerva

 

Il Subcomandante Marcos smette di esistere. “Basta guide e leader – dice – Es nuestra convicción y nuestra práctica que para rebelarse y luchar no son necesarios ni líderes ni caudillos ni mesías ni salvadores. Para luchar sólo se necesitan un poco de vergüenza, un tanto de dignidad y mucha organización”.

Condivido oggi queste righe scritte anni fa, avendo avuto la fortuna di conoscere e vivere l’nsostituibile esperienza zapatista:
“Molti di noi sono arrivati in Chiapas attratti dai comunicati del Subcomandante Marcos. Ci siamo emozionati, come dei quindicenni davanti alla loro rockstar preferita, quando abbiamo visto quel poeta rivoluzionario per la prima volta. E gli abbiamo puntato addosso telecamere e macchine fotografiche per immortalare l’idolo di una nuova rivoluzione. Poi, solo dopo aver vissuto nei villaggi indigeni e aver stretto la mano a quegli uomini minuti e a quelle donne timide delle comunità zapatiste, abbiamo capito che erano loro la vera essenza di questa rivoluzione. Che il loro essere rivoluzionari non stava nell’aver letto Marx o nel dibattere su quale componente del comunismo, del socialismo rivoluzionario o dell’anarchia andasse riscattata. Il loro essere rivoluzionari consiste in una pratica di resistenza quotidiana: nel rifiutare le vacche, i polli, i sacchi di cemento, le dispense alimentari e i fertilizzanti distribuiti dal governo nell’ambito di progetti di “sviluppo comunitario”, perché “il ‘Mal Governo’ – dicono – non può comprare la nostra dignità con la carità”. La loro resistenza consiste nel non farsi convincere dai funzionari del governo che passano di casa in casa a proporre la conversione delle terre comunitarie in piccole proprietà private “così le potete vendere e diventare ricchi”. La loro resistenza risiede nel rispetto della “Madre Terra”, negli orti comunitari in cui lavorano tutti insieme perché “il collettivo è la forma per crescere”. Consiste nel non vendere a sottocosto i frutti del proprio lavoro al mercato municipale ma nell’organizzare reti di economia solidale. Consiste nelle scuole e nelle cliniche autonome, in cui i maestri e i paramedici sono indigeni. Risiede nel loro sistema di giustizia, aperto a tutti, in cui non c’è il dictamen di un giudice a definire una sentenza ma si dialoga finché si raggiunge la slamalil kinal, la “vita tranquilla”, l’accordo tra le parti”.

Siamo stati “campamentisti” e osservatori internazionali nelle comunità autonome zapatiste, con il compito di monitorare il passaggio di forze militari e paramilitari, registrare i numeri di targa dei carri armati e compilare un rapporto per il centro di diritti umani Frayba. Ore interminabili ad osservare, dal ciglio di una strada.
Ci siamo sentiti un po’ imbarazzati quando, in occasione di una nostra visita, hanno sgozzato una gallina e preparato il caldo de pollo, piatto delle grandi occasioni. Con loro abbiamo capito il vero significato della parola “condivisione”.
Abbiamo organizzato iniziative di raccolta fondi nei nostri Paesi per finanziare i progetti e le aree che le stesse Giunte di Buon Governo delle comunità zapatiste ci propongono: scuole, cliniche autonome, cooperative di caffè e di artigianato. Abbiamo condiviso le nostre competenze tecniche per formare medici e maestri indigeni. O abbiamo messo a disposizione la forza delle nostre braccia per costruire insieme a loro acquedotti, reti fognarie, turbine idroelettriche. O forse in Chiapas non ci siamo mai stati, ma indossando gli anfibi realizzati dai calzolai di Oventic e comprando e bevendo il caffè delle cooperative zapatiste, sappiamo di dare un contributo importante al processo di autonomia.
Nelle lunghissime assemblee, in cui ogni passo di un progetto viene discusso e ridiscusso da tutti decine di volte, abbiamo capito che quel “camminare domandando” non era solo un motto, ma una pratica quotidiana. Abbiamo ascoltato lunghe e incomprensibili litanie in tzotzil. Abbiamo imparato ad ascoltare. E abbiamo imparato ad aspettare. Abbiamo aspettato per ore il passaggio di un mezzo di trasporto per uscire dalla Selva. Abbiamo aspettato che la Giunta di Buon Governo ci ricevesse per discutere su come mandare avanti un progetto. Abbiamo risposto un numero interminabile di volte (mentre loro appuntavano rigorosamente sui loro registri) alle domande di rito delle autorità zapatiste: “nome?, “organizzazione?”, “Paese di provenienza?”, “motivo della visita?”. E noi: “Ma come? di nuovo? Sono venuto la settimana scorsa, non vi ricordate?”. Spesso ci è toccato ricominciare da capo, perché le autorità con cui avevamo parlato la settimana prima erano cambiate… dato che l’esercizio del potere nel “Buon Governo” non è cosa da “professionisti della politica”, ma compito di tutti e tutte, a turno.
Abbiamo imparato ad amare questi uomini e queste donne “di mais” con i quali siamo cresciuti. E anche loro sono cresciuti con noi. Hanno smesso di domandarci stupiti come mai a venticinque anni non fossimo ancora sposati, perché in fondo – si sono detti – in un “mundo donde quepan muchos mundos” c’è posto anche per queste stranezze.
Pochi di noi sono sfuggiti alla “vendetta di Montezuma”: abbiamo pagato con qualche infezione intestinale il prezzo di essere discendenti dei colonizzatori…(nonostante ci siamo sempre sentiti più solidali con i colonizzati). Abbiamo trascorso lunghe notti sulle amache nei “campamentos civiles por la paz”, le casette di legno costruite apposta per noi nei villaggi zapatisti. E ci siamo lavati nei fiumi…divertente…anche se un po’ scomodo per le donne che, per rispetto alle loro usanze, fanno il bagno vestite.
Camminando nelle comunità nei periodi di pioggia, armati di scarponcini da trakking, siamo scivolati ripetutamente nella fanghiglia suscitando le risa delle compagne zapatiste che riescono, non capiamo come, a camminare abilmente sul fango con i loro sandaletti di plastica neri.
Sui colectivos, i camioncini che, anche nella nebbia più fitta, tagliano le curve ad una velocità pazzesca… abbiamo battuto i denti… e non c’è rimasto che riporre la nostra fiducia nelle Vergini di Guadalupe e nei Cristi immancabilmente appesi agli specchietti retrovisori.
Chi lavora con le comunità zapatiste del Chiapas si sente depositario e parte di un’identità collettiva. E’ un “noi” che si è impegnato a portare avanti non solo un progetto di cooperazione, ma un processo di cambiamento, e un progetto di vita. Non importano i nostri nomi, le sigle dei nostri collettivi e delle nostre organizzazioni. Siamo “los hermanos y las hermanas solidarias de otros países ”. Siamo italiani, francesi, spagnoli, nordamericani, svedesi, tedeschi, baschi, catalani, greci, inglesi, svizzeri. Siamo collettivi, movimenti, associazioni, reti, ong, militanti. Siamo cattolici, protestanti, atei, disobbedienti, anarchici, studenti, contadini, artisti, omosessuali, professori, commercianti, musicisti, dentisti, muratori, psicologi, imbianchini, erboristi, giornalisti, maestri, medici…
E dopo anni trascorsi a lavorare con i popoli zapatisti e a “camminare domandando”, qualche risposta ce la siamo data: la democrazia inizia dalla costruzione di uno spazio in cui diverse esperienze comunicano tra loro; ognuno di noi è parte di un tutto; valorizzando e rispettando le nostre specificità, possiamo costruire un’identità collettiva”.
(F.Minerva, estratto dalla pubblicazione: “Subire la cooperazione? Gli aspetti critici dello sviluppo nell’esperienza di antropologi e cooperanti”, a cura di Francesco Zanotelli,Filippo Lenzi Grillini)